sabato 19 gennaio 2013

Il mondo piccolo di Guareschi, Don Camillo e Peppone.

Ebbene, qui occorre spiegarsi: se i preti si sentono offesi per via di don Camillo, padronissimi di rompermi un candelotto in lesta; se i comunisti si sentono offesi per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo, niente da fare; perché chi parla nelle mie storie, non è il Cristo, ma il mio Cristo: cioè la voce della mia coscienza. Roba mia personale, affari interni miei.
Quindi ognuno per sé e Dio per tutti.



Così Guareschi conclude l’introduzione al suo Mondo Piccolo. Siamo nella Bassa Emiliana sul finire della seconda guerra, e la società è divisa in due: chi sta coi preti e chi con i comunisti.

Io avevo già i visto i film di Don Camillo e Peppone ed ero incuriosito anche dal leggere le opere di Guareschi che li hanno ispirati. Con vera gioia ho scoperto che il libro è anche meglio.

I film sono stati molto “addolciti”, non dovevano essere un pretesto per creare conflitti, ma per unire un popolo sull’orlo della guerra civile. I titoli di due capitoli contengono la parola “paura”, che sicuramente nei 
film non emerge. Ci sono anche sparatorie e omicidi.

Penso che siano geniali i dialoghi tra Don Camillo e il “suo” Crocifisso.
I dialoghi tra Don Camillo e Peppone sono i dialoghi di due che si vogliono bene (e hanno combattuto insieme in guerra) ma che si trovano agli estremi opposti in politica... anche se alla fine sui casi di coscienza l’ideologia passa in secondo piano.

Allego alcuni brani che mi sono piaciuti particolarmente.



Nelle grandi città la gente si preoccupa soprattutto di vivere in modo originale e così saltano poi fuori cose sul genere dell'esistenzialismo, che non significano un accidente, ma danno l'illusione di vivere in modo diverso dai vecchi sistemi, Invece nei paesi della Bassa si nasce, si vive, si ama, si odia, e si muore secondo i soliti schemi convenzionali.
La cultura è la più grande porcheria dell'universo perché ti amareggia, oltre la vita, anche la morte.

Durante uno sciopero Peppone voleva fermare tutti gli orologi del paese compreso quello del campanile, dopo che era stato pitturato il sedere della Gisella (episodio presente anche nel film).

«Ecco» spiegò don Camillo indicando una ruota «basta mettere questo cavicchio lì e si ferma tutto.» «Sì, sì, deve fermarsi» esclamò Peppone che sudava. ... «Tu vuoi fermare l'orologio perché è sulla torre e lo vedi mille volte al giorno. Dovunque tu vada, l'orologio della torre ti guarda, come l'occhio della sentinella dalla torretta dei campi di prigionia. E se tu volgi il capo dall'altra parte è inutile, perché senti quello sguardo pesarti sulla nuca. E se ti chiudi in casa e nascondi la testa sotto il cuscino, quello sguardo passa i muri, e poi i rintocchi dell'orologio ti raggiungono e ti portano la voce del tempo. Ti portano la voce della tua coscienza. È inutile, se hai paura di Dio perché hai peccato, nascondere il Crocifisso che hai sul letto: Dio rimane e ti parlerà per tutta la tua vita con la voce del tuo rimorso. È inutile Peppone che tu fermi l'orologio della torre: il tempo non lo fermi. Il tempo continua. Passano le ore, passano i giorni, e ogni istante è qualcosa che tu rubi».
«Ferma pure l'orologio. Non fermerai il tempo: e le messi languiranno nei campi, le vacche deperiranno nelle stalle, il pane di istante in istante diminuirà sulla mensa degli uomini. La guerra è l'infamia più orrenda che esista, ma se il malvagio tenta di invadere la tua terra e depredare le tue cose e la tua libertà, tu devi difenderti. Scioperare vuol dire difendere dei sacrosanti diritti, difendere il tuo pane, la tua libertà e l'avvertire dei tuoi figli. Così invece sei tu il malvagio che porta la guerra contro il suo simile per tutelare il suo stupido orgoglio di uomo di parte. È una guerra "di prestigio", il tipo di guerra più empio e maledetto.»
«La giustizia...» «Esistono delle leggi da te accettate le quali tutelano il cittadino da capo a piedi, dentro e fuori. Non occorre che intervenga un partito per tutelare il sedere di una Pasionaria da si rapazzo. Ferma il tuo sciopero, invece di fermare l'orologio.»

Questo un brano in cui emerge la paura...

Ad un tratto sospirò, e il Cristo gli parlò sommesso. «Cos'hai, don Camillo? Da qualche giorno mi sembri affaticato. Ti senti poco bene? Che sia un po' d'influenza?» «No, Gesù» confessò senza alzare la testa don Camillo. «È paura.» «Tu hai paura? E di che mai?» «Non lo so: se sapessi di che cosa ho paura non avrei più paura» rispose don Camillo. «C'è qualcosa che non va, qualcosa sospeso nell'aria, qualcosa da cui non posso difendermi. Venti uomini che mi aggrediscono con lo schioppo in pugno non mi fanno paura: mi seccano perché sono venti e io sono solo e senza schioppo. Se io mi trovo in mezzo al mare e non so nuotare penso: fra un minuto affogherò come un pulcino. E allora, mi di spiace molto, ma non provo paura. Quando su un pericolo si può ragionare non si prova paura. La paura è per i pericoli che si sentono ma non si conoscono. È come se camminassi a occhi bendati su una strada sconosciuta. Brutta faccenda.»
«Non hai più fede nel tuo Dio, don Camillo?» « L'anima è di Dio, i corpi sono della terra. La fede è grande, ma questa è una paura fisica. La mia fede può essere immensa, ma se sto dieci giorni senza bere, ho sete. La fede consiste nel sopportare questa sete accettandola a cuore sereno come una prova impostaci da Dio. Gesù, io sono pronto a sopportare mille paure come questa per amor Vostro. Però ho paura.»

Qua Peppone aiuta Don Camillo nel sistemare il presepe, ed è la conclusione del libro.

Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera. Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna. «Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale» annunciò con fierezza Peppone. «Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. E’ un fenomeno.»
Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello. «Questo è il figlio di Peppone, questa la moglie di Peppone e questo Peppone» disse don Camillo toccando per ultimo il somarello. «E questo è don Camillo!» esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo. «Bah! Fra bestie ci si comprende sempre» concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udi risuonarsi all'orecchio le parole della poesia, che oramai sapeva a memoria. «Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!» si rallegrò. «Anche quando comanderà la democrazia proletaria, le poesie bisognerà lasciarle stare. Anzi, renderle obbligatorie!»
Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l'argine, ed era anch'esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all'acqua, c'eran voluti mille anni. E soltanto fra venti generazioni l'acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l'ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all'anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.

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