martedì 13 agosto 2013

Le donne della Bibbia (AT).

Eva, la madre.
L'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi (Gen 3,20).


Nella cultura semitica, dare il nome significa aver colto l'identità di una persona, aver capito a quale compito è destinata nel disegno del Creatore.
Nel libro della Genesi si racconta che quando Dio presentò all'uomo colei che doveva essere la compagna della sua vita, Adamo esultò di gioia e, con il canto – il primo canto d'amore della storia – manifestò la propria commozione e riconoscenza. Tutte le creature sono meravigliose, ma la donna è il capolavoro.
E’ a questo punto che l'uomo riconosce la sua sposa e le dà il nome: Si chiamerà Eva – in ebraico hawwah –che non è un nome proprio, significa colei che dona vita. Eccola l'identità della donna: "vita". Tutto in lei parla di vita, di accoglienza, di disponibilità, di servizio alla vita.
In lei la vita sboccia, germoglia e cresce e viene consegnata al mondo.
La vita umana è la più preziosa, immensamente preziosa, perché destinata a tornare a Dio, «il Signore, amante della vita» (Sap 11,26).



Sara, la sorridente
Il Signore disse ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua sposa, avrà un figlio». Allora Sara rise dentro di sé..." (Gen 18,10.12).

Sara è la prima donna sterile, amareggiata, vecchia e delusa della Bibbia; Elisabetta sarà l'ultima. Nella loro storia è racchiusa e simboleggiata la condizione dell'umanità intera che solo da Dio può attendersi il dono della vita.
Si potrà credere in un Dio che annuncia che un giorno il deserto fiorirà, che il grembo sterile partorirà, che una giovane vergine concepirà e darà alla luce un figlio e che da una tomba uscirà la vita? C'è da sorridere. Sara è la prima che, con il suo sorriso, solleva il dubbio che questi prodigi possano accadere. «Ma Sara negò: "Non ho riso!", perché aveva paura; ma il Signore disse: "Sì, hai proprio riso"» (Gen 18,15). E avrebbe sorriso di gioia il giorno della nascita del figlio. Da qui il significato del nome "Isacco": sorriderà.
Ovunque giunge e viene accolta, la parola del Signore fa sorridere: prima suscita il sorriso incredulo, poi il sorriso lieto di chi, con gioia, verifica che Dio è fedele e realizza sempre ciò che promette.

Ester, la coraggiosa.
Se dovrò perire perirò... Questo è il mio desiderio: che sia risparmiato il mio popolo. (Est 4,16; 7,3).

Al Signore piace rovesciare le sorti: abbatte i potenti e innalza gli umili, colma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi (Le 1,5253). Realizza questi suoi disegni attraverso i suoi servi fedeli. In Egitto liberò il suo popolo dalla schiavitù attraverso Mosè, in Persia lo strumento della sua salvezza fu una donna, Ester.
Era figlia di ebrei, ma, essendo nata in terra straniera, le era stato dato il nome di una divinità mesopotamica, Ishtar, la stella del mattino, il pianeta Venere, simbolo della bellezza luminosa e pura, perché Ester era bella, affascinante.
La grazia femminile è opera di Dio, ma può anche servire al male: «Per la bellezza di una donna molti sono periti; per essa l'amore brucia come fuoco» (Sir 9,8). Quando invece risponde ai disegni di Dio, diviene motivo di immensa gioia ed e sorgente di vita.
Ester non la mette in gioco per assecondare passioni sregolate, per soddisfare il proprio orgoglio, solleticare istinti, rovinare coppie, ma per salvare il suo popolo anche a rischio di perdere la propria vita. Nel libro di Ester intervengono molti uomini che ordiscono il male. Una donna, gestendo per il bene la propria femminilità, rovescia le sorti del suo popolo.

Rut, la straniera.
Rut disse a Noemi: «Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16).

Era il tempo in cui in Israele si guardava con astioso sospetto agli stranieri: costituivano un'insidia per la fede, un pericolo per la purezza della razza. C'era chi ordinava di ripudiare la propria moglie se era straniera.
È per contestare il gretto isolazionismo del suo popolo –"che abita separato e non si mischia con gli altri" (Nm 23,9) – che un arguto scrittore ebreo compone la novella di Rut, un gustoso racconto il cui obiettivo viene svelato dall'autore solo negli ultimi versetti.
Rut è una giovane straniera cresciuta fra le montagne di Moab e giunta a Betlemme dopo varie peripezie. Booz, un giudeo più sensibile alla bellezza femminile che alla purezza della razza, la sposa. È a questo punto che l'autore scopre le carte: da Rut nacque Obed e da lui lesse, il padre di Davide (Rt 4,17)... Vi pare poco – sembra chiedere con sottile umorismo – che nientemeno che Davide discenda da una straniera?
Nell'integralismo, nell'esasperazione dell'identità nazionale, sono sempre in agguato l'aggressività e l'intolleranza verso gli altri. Anche la comunità religiosa corre questo rischio: può ripiegarsi su se stessa, essere ossessionata dalla purità, convincersi che non esiste santità al di fuori dei suoi confini.
La figura di Rut contesta ogni forma di separatismo integralista.

Dalilàh, la seduttrice.
Come puoi dirmi: Ti amo, mentre il tuo cuore non è con me?... E lo addormentò sulle sue ginocchia. (Gdc 16,16.19)

Veniva da Bet-Shemesh che significa "Casa del sole" ed era aitante, impetuoso, fulgido come il sole, bello come un dio. Anche il suo nome — Sansone — in ebraico evoca la radiosità del sole. Eppure, malgrado la sua straordinaria forza, conobbe il declino fisico e morale per colpa di una donna. La giovane, affascinante Dalilàh, esperta in lusinghe, lo seppe irretire in un'avventura amorosa  fatta di seduzione, ricatti affettivi e inganni.
Soldi e sesso sono gli ingredienti di tutte le storie di amanti.
A Dalilàh i capi del popolo hanno promesso denaro affinché metta in atto le sue straordinarie malie erotiche. Ha accettato, solleticata — più che dai soldi — dal sogno di tante ragazze: gustare l'ebbrezza di sedurre la star del momento.
Adescatrici maliarde, donne fatali che, ad ogni costo, decidono di conquistare il cuore di un uomo, non per autentico amore, ma per disporre di lui a proprio piacimento.
La Bibbia considera perfidia questo comportamento egoistico. Oggi invece, spesso, i mass-media lo esaltano e lo spacciano per amore.
  
Shulamit, l'innamorata.
O mia colomba, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso grazioso (Ct 2,14).

Fra vigne e ulivi correva, libera e felice, nella stagione degli amori, quando sbocciano i fiori, la vite mette germogli, le mandragore spandono profumo e fioriscono i melograni (Ct 7,13-14). Leggiadra come palma (Ct 7,8), dolce come colomba (Ct 2,14), bruna, abbronzata dal sole sotto il quale è rimasta a lungo lavorando nei campi (Ct 1,5), Shulamit, la giovane contadinellcr protagonista del capolavoro fra i canti d'amore.
Sola vuole rimanere con il suo diletto che viene da lei "saltando per i monti, balzando per le colline, come capriolo o cerbiatto" (Ct 2,8-9). Perdutamente innamorata, non accetta interferenze nelle sue scelte affettive, nessuno può condizionare il suo amore. Ha fratelli che si sentono in diritto di controllare la sua vita, di custodirla. Lei vuole essere autonoma nel gestire il proprio corpo (Ct 1,6; 8,8-10). Se teniamo presente il contesto sociale in cui è stato composto il Cantico dei Cantici è difficile immaginare un comportamento più sovversivo di quello assunto da Shulamit, l'innamorata, la pastorella libera e felice. Una provocazione e uno stimolo al cambiamento per le società in cui la donna è ancora soggetta a inaccettabili condizionamenti.

Riflessione dei sacerdoti del Sacro Cuore di Bologna (Calendario 2010).

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